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Come comunicare senza stereotipi di genere – Intervista a Ella Marciello

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Uomini contro donne? Nel 2021 la disparità che faticosamente molte persone cercano di colmare a suon di educazione, manifestazioni e dialogo è più che mai allargata. Secondo una recente relazione della Commissione Europea, la pandemia globale non ha fatto altro che accentuare le disuguaglianze esistenti tra donne e uomini in quasi tutti gli ambiti della vita, sia in Italia che nel resto del mondo. Oltre a un drammatico aumento della violenza domestica, il mercato del lavoro ha colpito duramente la percentuale di lavoratrici: basti pensare che nell’ultimo anno il 98% di chi ha perso il lavoro è donna.

Perché questo argomento dovrebbe interessare però i brand, chi fa advertising e gli operatori della comunicazione in generale? Semplice: perché siamo tra i primi responsabili della quotidianità. La pubblicità è una cosa seria, soprattutto perché racconta e deve saper trasmettere i messaggi giusti, che siano i valori di una marca o i vantaggi di un prodotto. Se una qualsiasi promozione o contenuto editoriale presenta un qualsivoglia stereotipo di genere, allora si trasforma in un messaggio sbagliato, che non porterà a nulla di buono. 

E dunque: come comunicare senza scadere negli stereotipi di genere? Ne ho voluto parlare con un’amica e grande professionista: Ella Marciello. Direttrice Creativa di RIBELLI, agenzia creativa indipendente ed etica di Torino, dove vive e lavora, Spokeswoman & Creative di Hella Network, collettivo e network dedicato alla comunicazione inclusiva, Docente per varie academy come lo IED (Istituto Europeo di Design) e potrei andare avanti per delle ore. 

È la classica persona che ammiro perché fa 627 cose diverse, allo stesso tempo… e bene. Tra le sue attività c’è n’è una che porta avanti da anni: combattere gli stereotipi di genere e le discriminazioni sessuali, favorendo la parità di genere. E tutto questo a colpi di informazioni, analisi, arte e riflessioni. 

Ho provato a presentarti, ma ora chiedo a te di farlo: chi è Ella Marciello? 

Una che chiamano “ragazza ribelle”.
Secondo me non si sbagliano, il più delle volte.

Cosa sono gli stereotipi di genere? E quando sono nati, secondo te? 

Gli stereotipi di genere, banalizzando, sono convinzioni radicate in cerchie sociali appartenenti ad una cultura che attribuiscono determinate caratteristiche alle persone a seconda del genere a cui appartengono. E così, le donne sono irrazionali, emotive, dedite alla cura, deboli mentre gli uomini sono responsabili, coraggiosi, leader di natura.
Si crede che il sesso di una persona determini necessariamente anche il suo modo di stare al mondo e le sue scelte. Sin dall’infanzia siamo portati a pensare che bambine e bambini abbiano comportamenti diversi in base al sesso, senza valutare caratteristiche individuali, predisposizioni caratteriali, società di provenienza e gusti personali: ognuno di noi quindi rischia di diventare lo specchio di un modello imposto arbitrariamente dalla nascita. Ma il sesso non è il genere, perché il sesso è l’insieme delle caratteristiche biologiche e genetiche di una persona. Il genere indica invece i tratti sociali e culturali che danno significato al sesso, l’insieme delle qualità che distinguono la mascolinità e la femminilità come risultato di una costruzione sociale.

Il genere, in breve, è un costrutto sociale.

C’è un libro molto interessante di Eva Cantarella dal titolo “Gli Inganni di Pandora” che cerca di risalire alla nascita degli stereotipi. Cantarella sostiene che la nascita della discriminazione sia antichissima, addirittura risalente all’antica Grecia e che essa sia dovuta alla nascita della differenza sessuale, da subito fondata anche nei miti come differenza non soltanto naturale, ma accompagnata a caratteristiche sociali e culturali. Pensiamo ad esempio proprio al mito di Pandora, raccontato da Esiodo: “come dice il suo nome (da pan, ‘tutto’ e doron, ‘dono’), Pandora ricevette un dono da ciascuno degli dei: da Efesto un aspetto simile a quello di una ‘casta Vergine’; da Afrodite la capacità di sedurre, ‘desiderio struggente’ e ‘affanni che fiaccano le membra’. Ma Ermes le regalò ‘mente sfrontata’, ‘indole ambigua’, ‘menzogne’ e ‘discorsi ingannatori’.
La tradizione prettamente orale di miti e leggende ha contribuito largamente a fissare i ruoli che gli uomini e le donne devono incarnare, dalla notte dei tempi direi.

Puoi darmi esempi di stereotipi di genere nel corso del tempo? 

Possiamo parlare di stereotipo quando le nostre emozioni, i nostri giudizi di valore e i nostri atteggiamenti, intesi come disposizioni ad un agire corrispondente, non si rapportano a proprie esperienze fatte riguardo ad un certo fenomeno, ma sono una reazione ad una “categoria” senza esperienza empirica.
Se ci soffermiamo a riflettere sulla sfera professionale ad esempio, ci accorgiamo che- proprio rispetto alle convenzioni sociali e agli stereotipi esistono mestieri da sempre divisi per ruolo. E perciò le infermiere, le sarte, le maestre e i condottieri, i muratori, gli avvocati. Se pensiamo all’umile mestiere del seminatore (di cui c’è un bellissimo dipinto di J.F. Millet) e lo confrontiamo con le immagini fotografiche delle Mondine, ci accorgiamo che la divisione di compiti è legato spesso all’elemento della forza. Un seminatore deve avere forza per scagliare i semi nelle zolle, una Mondina solo cura per raccogliere.
Questo succede perché lo stereotipo è legato a doppio filo con la detenzione del potere e il genere è il primo terreno dove si manifestano le differenze legate al potere stesso. 

Gli stereotipi riguardano sia uomini che donne, ma la comunicazione pubblicitaria sembra colpire maggiormente l’universo femminile. Basta guardare anche alla recente Festa della mamma. Perché avviene e quali sono gli effetti (aggiungerei nefasti) di questo tipo di comunicazione?

La pubblicità lavora per stereotipi perché gli stereotipi fanno leva sugli immaginari condivisi. Sono scorciatoie facili, utili, che possono raggiungere un pubblico ampio e per questo sono funzionali a trasmettere messaggi.
Il problema – o il vantaggio, dipende da quanto ci sembra pieno il bicchiere –  è che le società si evolvono e così i linguaggi e se in questo momento c’è una maggior consapevolezza di come lo stereotipo influisca sulla vita delle persone, ne imponga norme e ruoli sociali e svilisca un genere rispetto a un altro la naturale conseguenza sarà che la pubblicità si adeguerà al cambiamento dei suoi stessi linguaggi. Lo sta già facendo in parte, con buona pace dei più reazionari tra noi.

Lo dico in maniera molto franca: è ora di smettere di oggettificare i corpi, di solleticare per forza immaginari sessuali e di fornire un unico modello rappresentativo di donna. Credo, di nuovo in tutta sincerità, che sia anche sintomo di mancanza di idee e che i team creativi debbano assolutamente confrontarsi con questa mancanza.
Costa fatica? Sì. Ma è necessario.

Quale dovrebbe essere il ruolo di un brand all’interno di una corretta parità di genere? O meglio: cosa dovrebbe fare o non fare un marchio per promuovere una giusta comunicazione in questo contesto?

Risposta facile: comunicare al meglio delle proprie possibilità, possibilmente smettendo di essere portavoci di certe narrazioni e rappresentazioni lesive. Accorgersi che il mondo contiene una pluralità di vissuti e che essi devono essere rappresentati.

Risposta difficile: dotarsi, a livello aziendale, di pratiche inclusive. Non ha senso una campagna di empowerment femminile se in azienda le posizioni apicali sono sempre e comunque occupate da uomini. In Europa oggi il 67% dei consigli di amministrazione è composto da uomini;  il 73% delle posizioni lavorative con ruoli di leadership è occupato da uomini;  l’84% delle posizioni dirigenziali è ricoperto da uomini e  il 95,4 % delle imprese ha un CEO di sesso maschile. (fonte: women on board 2019)

Nei meeting, dati alla mano, le donne vengono interrotte molto più degli uomini (2,8 volte rispetto a 1) e gli stessi uomini occupano verbalmente le riunioni nella misura del 75%. Questo indica che la cultura aziendale è la base da cui partire anche e soprattutto nelle questioni di genere. La supremazia dello spazio – fisico o verbale – è la supremazia della detenzione del potere.

Mi spingo ancora un po’ oltre: spesso le donne sono anche madri. Esistono in azienda comportamenti virtuosi a sostegno della maternità? Le promozioni e gli scatti di carriera tengono conto della genitorialità? Gli orari di lavoro e le richieste di disponibilità lavorativa  penalizzano le madri? Pongo queste domande un po’ in maniera retorica, perché negli ambienti lavorativi fa carriera chi è percepito come senza figli: questo ci dice molto della cultura che dobbiamo costruire. Una cultura della genitorialità condivisa che deve necessariamente rispecchiarsi in quella aziendale, in azioni concrete come il congedo parentale equo. Oggi i neo papà possono congedarsi per 10 giorni appena.

Una miriade di sbarramenti che incidono sulla parità di genere sono cementificati sul luogo di lavoro: nessuna azienda dovrebbe pensare di comunicare il tema della parità, di genere o retributiva, se non è in grado di essere portavoce e testimone di quei valori che vuole far percepire di possedere.
Insomma, di pink washing ne abbiamo in abbondanza e sappiamo bene come possa trasformarsi celermente in boomerang.

E qual è il ruolo del/della professionista o agenzia a cui un brand si può affidare? 

La professionista e il professionista pubblicitario hanno sempre un ruolo definito e cioè quello di portare valore al Brand. E il valore in questo senso non può prescindere dall’adesione a valori personali. In poche parole: creativə e agenzie sanno di cosa parlano o credono che parità e inclusione siano l’ennesimo trend da cavalcare? Perché in caso affermativo ho una pessima notizia da dare.

L’etica non si finge, per fortuna.
Un brand che si affida a professionistə che con certe tematiche ci giocano o le utilizzano alla stregua di una tendenza arrecano danno alle persone che di quel brand si fidano, ma soprattutto al brand stesso.

Ti è mai capitato di rifiutare un lavoro che hai reputato lesivo verso la figura della donna? 

Sì, un lavoro in particolare di comunicazione politica.

Come si combattono gli stereotipi di genere? Più che “consigli”, puoi stilare una checklist di sane “regole da osservare”?

Secondo il Global Gender Gap Report 2020 (stilato dal World Economic Forum), in Italia pesa particolarmente “la scarsa rappresentanza femminile nei ruoli emergenti, la differenza salariale tra uomini e donne a parità di livello e di mansioni, e una ripartizione dei ruoli tradizionali che tiene le donne ai margini del mercato del lavoro e le espone maggiormente al rischio povertà e a una serie di discriminazioni sociali”. Un quadro particolarmente difficile e preoccupante, insomma. 

Quello da cui dovremmo sempre partire è il riconoscere i nostri bias cognitivi:

  • quando parla una donna sento meno autorevolezza?
  • Tengo in considerazione le sue idee oppure sento che valgono meno delle mie?
  • Penso che in questo mestiere le donne non siano all’altezza degli uomini?
  • Se devo preparare un caffè, cerco la prima donna disponibile?
  • Chiamo le donne per nome e gli uomini per titolo o per nome e cognome, ad esempio quando faccio le presentazioni?

Tutte queste microaggressioni quotidiane sono messe in atto dai pregiudizi cognitivi e comportamentali che la cultura patriarcale ci ha consegnato e il primo passo per infrangerli è esserne consapevoli.

Il glass ceiling non si rompe da un giorno all’altro, naturalmente. Ma non possiamo parlare di glass ceiling e di gender gap se non mettiamo in conto tutte le situazioni in cui il sessismo gioca un ruolo fondamentale nel definire ruoli e norme sociali, a partire dal micro per arrivare al macro perché la matrice da cui si originano è la stessa. 

In che modo la comunicazione può essere uno strumento importante per alimentare e raggiungere la parità di genere senza scadere negli stereotipi di massa? 

Perché la comunicazione rappresenta la vita. Suggerisce norme, aspetti, ruoli che le donne o altre categorie possono poi ricoprire nel mondo. Ciò che ogni bambina e ragazza vede in tv, sui giornali e sui social media amplia il ventaglio di ciò che può aspirare di diventare. Ciò che viene svilito sui media viene svilito nella vita di tutti i giorni. E noi abbiamo un potere immenso nella normalizzazione di comportamenti, situazioni e posizioni: usiamolo.

Domanda da un milione di dollari: fatturare e fare del bene possono convivere?

Sì. Ma io mica mi sento una benefattrice, intendiamoci. Mi sento una persona che vuole cambiare le cose nel settore in cui opera, che è profit.
Chiaro, esporsi e virare non è che sia lo sport più gratificante dell’universo, porta anche un sacco di seccature e di sconfitte. Ma io non ho la pretesa del podio personale, ho quella di lavorare verso una direzione che contempli la parità: forse non la vedrò realizzata ma saprò di aver fatto il possibile perché si possa compiere.